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IL TÈ NEL DESERTO
(THE SHELTERING SKY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 8 gennaio 1991
 
di Bernardo Bertolucci, con John Malkovich, Debra Winger, Scott Campbell (Italia - Stati Uniti, 1990)
 
La coppia di Bertolucci si era già persa nell'infinitamente piccolo di una stanza; ora, nel film che più assomiglia a ULTIMO TANGO A PARIGI, va a perdersi nell'infinitamente grande del deserto.

Sbarcano a Tangeri nel 1949 in vena d'esotismo (via da una New York fascinosamente mostrata in filigrana bianco e nera, nei spezzoni d'attualità che accompagnano i titoli di testa), Port e Kit. Fitzgeraldiani non solo nei lini sdruciti, nei bagagli mai sfatti, nei ritmi di una pigrizia da fastidi grassi sulla quale è meglio non porsi troppi problemi se si vuol stare al gioco: per derivare in un viaggio che è ovviamente interiore ("il turista pensa di ritornare prima ancora di partire; il viaggiatore ignora se un giorno sarà mai di ritorno"). Con una differenza: che mentre lui fa di tutto per affondare, lei sarà costretta a sopravvivere.

Vitalità ed autodistruzione: tra i due poli sui quali si costruisce (si distrugge) la dialettica dei protagonisti del romanzo di Paul Bowles il cinema di Bertolucci potrebbe insinuarsi a meraviglia. Poiché nel suo progressivo rifiuto della psicologia, nella sua costante, quasi compiaciuta rincorsa alla fisicità dei personaggi e delle situazioni, questo cinema è costantemente respinto verso i suoi opposti: dalla realtà all'irrealtà, dalla ragione al delirio, dalla materialità alla trascendenza. Cinema operatico, melodrammatico: quello di Bertolucci va visto come in un teatro, con i protagonisti osservati a distanza, filtrati dall'immaginazione e dalla fantasia per non accorgersi delle rughe dell'attore, della ciccia della cantante. Ma, al tempo stesso, cinema dell'oggetto, dei sensi e della carne: forse nessun altro cineasta al mondo è capace, come Bertolucci, di renderci il languore di una seta, il riflesso di un sentimento, l'ambiguità di un turbamento. O di renderci partecipi dell'emozione suscitata da un movimento di macchina, sontuoso e fremente, sull'interno di una camera da letto al risveglio come su un paesaggio sterminato di dune.

Il TE NEL DESERTO sviluppa esemplarmente questa duplicità dello sguardo cinematografico dell'autore di NOVECENTO. Dopo l'inizio vagamente aneddotico (l'arrivo dei tre giovani americani sul molo, il caffè e la città dalle tipiche risonanze africane, la canzone di Trenet o il manifesto cinematografico che determinano l'epoca) il film s'incolla ai personaggi, piuttosto che alla loro storia, alla loro pelle, piuttosto che ad una loro psicologia.

È questo intimismo (che il regista riesce straordinariamente ad ottenere all'interno di un film di grande spettacolo, di mezzi soverchianti, di budget condizionanti) uno degli aspetti memorabili dell'impresa: come in una mano che sfiora un'epidermide prima di cercarne l'intimità, in una veste che s'incolla di sudore al corpo di Debra Winger (splendidamente scavata nel personaggio) o di John Malkovich, c'è tutto l'alitare sensuale, disperato e solitario, come quello ormai leggendario del Marlon Brando di ULTIMO TANGO A PARIGI, di un essere umano che si aggrappa, o si distacca dalla vita. Dai suoi aspetti più effimeri, ma anche più tangibili, e consolatori.

Poi, in una lunga, dolorosa sequenza nella quale Port e Kit traducono fisicamente la loro impossibilità ad amarsi davanti all'immensità metafisica del deserto, il film scivola decisamente dalla realtà all'astrazione, dal dramma al melodramma, dal romanzo alla (così fragile, così rincorsa) poesia. Il deserto si fa ancor più straniante: con la luna, e le stelle, dipinte sopra carovane e splendide dune, tanto da ricordare quelle mitiche di Meliès. Con i fortini, le casbah, i segni del potere dell'uomo evanescenti nelle tempeste di sabbia, impossibilitate ormai a delimitare un territorio che non sia ormai più che quello effimero e straziante di una dimensione ignota.

Scivola anche, il film, verso quella dimensione dove la poesia confina con la sua parodia, a seconda di come uno si senta di osservarla. Come un serpente che si morda la coda, limiti e virtù dello splendido talento figurativo del regista emiliano sembrano fare a gara per avere il sopravvento: ed atmosfere rarefatte d'incanto sognante si accostano a visioni di agitazione folcloristica che, dietro alla sempre impeccabile fotografia di Vittorio Storaro traducono quasi un impaccio. Inquinando, nel loro lussuoso conformismo anche i momenti più ispirati.

Bertolucci, a proposito di questo viaggio di una coppia verso la propria perdizione, parla di uno dei più alti esempi del genere, VIAGGIO IN ITALIA . Ma la sua road-movie, forse perché soffocata dall'importanza economica dell'impresa, si situa agli antipodi del capolavoro di Rossellini: tutta la semplicità che reggeva il concetto del viaggio rosselliniano si fa qui grandezza (ma anche grandiloquenza) di un cinema che si nutre della propria dismisura.

Anche se il cinema di Bertolucci ci affascina proprio per essere uno degli ultimi legati all'idea eroica della grandiosità, è forse tempo che il regista ritorni all'umiltà emiliana di STRATEGIA DEL RAGNO. Anche se è proprio attraverso le sue contraddizioni espressive che questo cinema riesce a disquisire fra le cose dello spirito e quelle della carne, anche se è dal suo coraggio di abbandonare i sentieri tracciati del racconto che nasce la sua forza d'introspezione, è forse tempo di ritornare alle sicurezze della sceneggiatura e della progressione drammatica.

Senza questi due certezze, (determinanti almeno quanto l'intuizione visionaria dello sguardo registico) il suo cinema arrischia di affidarsi sempre di più alle chimere suggestive e fin troppo affascinanti di una serie infinita di momenti privilegiati.


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